Sono passati quasi vent’anni da quando, con la modifica introdotta dall’articolo 37, comma 1, lettera c) della legge 342 del 21 novembre 2000 (pensate, c’era ancora la lira…), premi, rimborsi, indennità e compensi erano stati collocati tutti, a prescindere dal loro ammontare, fra i redditi diversi e di conseguenza esclusi da ogni onere contributivo.
Il provvedimento apparve come un’autentica manna ed è in quel periodo che il fitness conosce la sua “Età dell’oro”, con il nascere di numerosi centri, spesso aperti individualmente da giovani finanziati dai loro genitori o addirittura da imprenditori per i quali il magazzino sfitto poteva in quel momento rappresentare un’opportunità di reinvestimento. Ritengo che in quell’epoca Veneto e soprattutto Marca Trevigiana siano state all’avanguardia per questo tipo di progettualità.
Da quel momento in poi, anche grazie alla legge 398 del ’91 che favorì l’attrazione di somme ingenti provenienti da sponsorizzazioni (però non sempre trasparenti), l’articolo 67, comma 1, lettera m) del TUIR divenne il karma, la soluzione taumaturgica, il lasciapassare per qualsivoglia inquadramento anche in quei casi che per durata, entità del compenso, soggettività del committente o del prestatore o di entrambi, avrebbero potuto configurarsi pacificamente quali rapporti di lavoro subordinato.
L’ebrezza, infatti, fu collettiva. Da un lato, i committenti di lavoro si trovavano di punto in bianco con un’offerta di giovani disoccupati per i quali, d’altro canto, lavorare nello sport dilettantistico appariva un’affascinante alternativa al lavoro di fabbrica o, in subordine, un buon arrotondamento per chi fosse impegnato negli studi.
Lavorare in palestra, non esistendo ancora la diffusione dei social che nel decennio successivo avrebbero mutato radicalmente i rapporti sociali, appariva l’eldorado della socializzazione, il porto franco dove intrecciare relazioni.
L’istruttore era come il bagnino di Rimini nelle Commedie all’Italiana. Contemporaneamente si sviluppa rapidamente la retorica del wellness, dello star bene con sé e con il proprio corpo. Si afferma il principio che le persone attraenti tendono ad essere percepite inizialmente come più intelligenti, meglio adeguate e più popolari.
A questa concenzione dell’individuo si adeguano presto e volentieri le aziende della cosmesi, che da allora entra prepotentemente nelle abitudini quotidiane dei consumatori, non perde mai di dinamica, ma anzi registra di anno in anno crescite positive.
Così come pure quello della fabbricazione di attrezzature ginniche sempre più sofisticate, che vedono in pochi anni un’azienda italiana divenire leader mondiale.
A quanto sopra, tuttavia, non si accompagna analoga e corrispondente maturazione di quadri dirigenziali e operativi. Per i primi appare prioritario presenziare a fiere del fitness piuttosto che a corsi di formazione, in ciò assecondati da una legislazione fiscale apparentemente e ingannevolmente di facile applicazione; per i secondi l’aspetto previdenziale appare secondario, illudendosi un domani di potersi mettere in proprio o comunque di poter agevolmente trovare una occupazione alternativa stabilizzata.
In particolare, l’ìillusoria e ingannevole libertà celebrata dalla flessibilità promette la possibilità di redifinire sempre ex novo le proprie traiettorie esistenziali e lavorative, dando tuttavia vita ad una identità perennemente in divenire, mai stabile, che inevitabilmente sfocia nel precariato, in ciò favorita da una legislazione in larga parte lacunosa e deficitaria.
Con il trionfo della lettera d’incarico, dunque, molti giovani inconsapevolmente divengono merce circolante che può liberamente essere acquistata, peraltro in forma non stabile e secondo le fluttuanti esigenze della domanda e dell’offerta.
Oggi i giovani sono costretti, complici le forme salariali più meschine ed abiette, a vivere in una situazione di assenza totale di programmazione per il proprio futuro.
Ma dobbiamo anche pensare che oggi più che mai, le nuove generazioni sono chiamate ad interpretare i segnali del mondo che cambia. Se preparate e messe nelle dovute condizioni, costituiscono la componente della società maggiormente in grado di porre in relazione le proprie potenzialità con le opportunità delle trasformazioni in atto. Al contrario, rischiano di essere i primi a veder scadere le proprie prerogative, a trovarsi maggiormente esposti con le loro fragilità a vecchi e nuovi rischi.
Appare perciò indispensabile, a distanza di vent’anni, che lo Sport colga questa occasione, per certi aspetti un dovere etico, e sia consapevole della improrogabile necessità di intervenire a regolare la materia disciplinare del lavoro sportivo dilettantistico.
Adesso, la legge delega 86 dell’agosto di quest’anno conferisce un posto di assoluto rilievo che il legislatore non potrà ignorare. Il mondo dello sport non chiede novità, pretende però la soluzione dei problemi vecchi.